World Congress of Families: le radici ideologiche

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Oh, God of Progress
Have you degraded or forgot us?
Where have your laws gone?
I think about it now
Sufjan Stevens – Come On! Feel the Illinoise!

PARTE I

Il World Congress of Families [Congresso Mondiale delle Famiglie] è un’iniziativa pensata intorno alla metà degli anni Novanta in particolare dallo storico statunitense Allan C. Carlson, già presidente del think tank ultraconservatore Rockford Institute, fondato nel giugno 1976 da John A. Howard a Rockford, Illinois con il nome originario di The Rockford College Institute.

Allan C Carlson
Allan C. Carlson

Carlson era divenuto vicepresidente del think tank nel 1981, prima di diventarne effettivamente presidente nel 1986. Sotto la sua vicepresidenza, durata circa sei anni, all’interno del Rockford Institute furono creati il Center on Religion and Society (1984), diretto dal reverendo Richard John Neuhaus, e il Center on the Family in America (1986), diretto dallo stesso Carlson. Nel 1988, poi, Carlson fu nominato membro della National Commission on Children dall’allora presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, incarico che terminò nel 1991. Sempre nel 1988, fu pubblicato anche Family Questions: Reflections on the American Social Crisis, il primo libro di Carlson, in cui l’autore si poneva l’obiettivo di spiegare come fosse possibile che negli Stati Uniti, «un tempo considerati la nazione più centrata sulla famiglia di tutte» [p. XV], si celebrassero sempre meno matrimoni, mentre aumentavano i divorzi e crollavano le nascite, soprattutto da parte delle coppie sposate, e mentre le donne facevano sempre più ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza. Carlson non si nascondeva dietro un dito ed esplicitava fin dall’inizio le sue idee di partenza, procedendo per punti:

«Innanzitutto, l’autore crede che uno degli scopi principali dell’esistenza umana – forse lo scopo principale – sia la riproduzione della specie. Questa convinzione deriva dagli studi della legge naturale e dalla sociologia, dalla psicologia, dall’antropologia, dalla genetica e dalla biologia. La famiglia serve da origine, protezione e incubazione di bambini. […]

Secondo, la famiglia è un’istituzione universale e non prettamente americana. […] La famiglia formata da un uomo, una donna e i loro figli è un’istituzione che preesiste a ogni nazione o stato […].

Terzo, i governi o lo stato hanno un’infinita capacità di far male a o distruggere la famiglia e un’abilità molto limitata per aiutarla. Ciò significa che i tentativi del governo di salvare la famiglia con progetti o interventi aggressivi comporteranno risultati non voluti e generalmente negativi. […]

Quarto, il sistema americano di capitalismo liberale ha una relazione insolita con l’istituzione della famiglia. […] Il Capitalismo ha bisogno della famiglia come regolatore, o controllo, degli istinti di base del sistema economico. Al contrario, la famiglia non ha bisogno del capitalismo industriale nella stessa misura. A parità di tutte le circostanze, i benefici del capitalismo […] aiutano la famiglia universale. È anche vero, però, che l’economia pre-capitalista e prevalentemente agraria forniva un terreno più naturale per l’unità famigliare, dove le questioni dei ruoli di genere e il valore dei bambini non erano affatto un problema. […]

Quinto, una società libera che si fonda sui principi di libertà favorisce facilmente la vita familiare soltanto finché la famiglia viene vista come depositaria di specifici diritti e doveri. Quando le mogli e i figli ottengono nuovi diritti indipendenti da quelli dei loro mariti o padri e quando lo stato si prende la responsabilità della protezione di quei diritti, l’autonomia della famiglia ne soffre necessariamente e lo stato cresce». [pp. XVI-XVII]

Family QuestionsIn sostanza, Carlson attribuisce un ruolo sociale fondamentale alla famiglia, strettamente intesa come nucleo generato dal vincolo matrimoniale e formato da un uomo, una donna e loro prole biologica. Nulla è cattivo nella famiglia: persino gli abusi commessi sui figli sono per la maggior parte un’invenzione giornalistica e dell’ideologia dei child savers [pp. 241-256]. La violenza domestica, per Carlson, cresce con il decadimento moderno del potere maschile e paterno, con l’affermazione dei movimenti femministi e a causa dell’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza. E poiché tutto deve ruotare intorno all’indipendenza e all’autonomia della famiglia etero-patriarcale, pena l’aumento della violenza e la morte della civiltà, è fondamentale che le donne si sposino, diventino madri e si occupino dei figli e della loro educazione a tempo pieno, senza chiedere un posto di lavoro o di voler essere riconosciute socialmente come pari. Family Questions attacca frontalmente non soltanto la società industriale, in favore di un ritorno agrario a una mitizzata società famigliare pre-capitalista, ma aggredisce anche il marxismo e i femminismi della seconda ondata. Secondo Carlson, è fondamentale riconoscere le differenze e la complementarietà dei (due) sessi, inscritte teoricamente nei corpi, e contrastare la “mistificazione dell’androginia” apparentemente propugnata dalle femministe. Non a caso, la prima parte del libro – intitolata The Gender Question – si conclude con il capitolo The Androgyny Hoax [pp. 29-47], già pubblicato come articolo autonomo nel marzo del 1986 dalla rivista del Rockford Institute Persuasion at Work. Nel 1995, The Andogyny Hoax sarà ripubblicato sulla rivista del Population Research Institute (PRI), organismo creato da Paul Marx nel 1989 (otto anni dopo la fondazione dell’antiabortista Human Life International). Per il PRI, l’articolo di Carlson aiutava a far luce sulla polemica intorno alle elaborazioni femministe e intorno alla parola “genere”, utilizzata al posto di “sesso” nei lavori preparatori per la Conferenza mondiale sulle donne (Pechino, 1995) organizzata dall’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU).

D’altra parte, nell’aprile del 1994, Carlson aveva partecipato a un convegno organizzato proprio dal PRI in qualità di relatore. Il suo intervento si intitolava What’s Wrong With the United Nations’ Definition of the Family? ed era un’analisi sdegnata degli sviluppi intorno a un’altra conferenza dell’ONU, quella sulla popolazione e lo sviluppo (Cairo, 1994). Sarà successivamente pubblicato sulle pagine di The Family in America, rivista del Rockford Institute, e su quelle della Population Research Institute Review. Nel discorso, Carlson dimostrava di aver iniziato a spostare l’attenzione dalle politiche statunitensi a quelle internazionali: «La virata delle élites americane e del governo statunitense in questa direzione anti-natalista e anti-famiglia cominciò negli anni ’60 e culminò negli ultimi anni ’70. Ora tocca al “governo internazionale” virare verso la rivoluzione sociale sotto le spoglie della stessa ridefinizione subdola della famiglia». La ridefinizione, qui, è all’insegna della parità tra uomo e donna (quindi anche dei coniugi), dei diritti delle donne e delle/degli infanti, oltre che di un più generale cambiamento, non soltanto enunciato per evitare di affermare un “decadimento” sociale – «”Decline” or “decay” are transformed into “change”» – ma anche immediatamente voluto e cercato: «Change, change, change. Inevitable, and necessary».

PRIPer Carlson, gli organismi nazionali e internazionali volevano smantellare la famiglia “tradizionale”, quella cioè derivata dal matrimonio (tra un uomo e una donna), la maternità e il lavoro domestico. Detta altrimenti, l’ONU – come il governo degli Stati Uniti – diventava un campo di battaglia fondamentale per evitare la presunta erosione dell’unità famigliare, con la scomparsa primariamente della figura paterna e della sua autorità: bisognava cambiare rotta e ripartire dalla rinegoziazione delle parole, rendere statici i concetti, astrarli. Nel corso del suo intervento, Carlson mostrava fede nel carattere universale, oltre che immutabile, della famiglia, la quale non conoscerebbe declinazioni nel tempo o nello spazio. La verità della famiglia sarebbe dunque trascendente:

«È semplicemente falso sostenere che non vi sia una definizione relativamente fissa di “famiglia”. Le testimonianze umane, se affrontate con onestà, mostrano che la famiglia è una comunità naturale, universale e insostituibile, radicata nella natura umana. La “famiglia” in tutte le epoche e in tutti gli angoli del globo può essere definita come un uomo e una donna legati insieme attraverso un patto matrimoniale socialmente approvato col fine di regolare la sessualità, di generare, allevare e proteggere figli, di fornire reciproche assistenza e protezione, di creare una piccola economia domestica e di mantenere una continuità tra le generazioni: quelli che c’erano prima e quelli che verranno dopo. È a partire dalle relazioni della famiglia, reciproche e ricreate naturalmente, che comunità più estese crescono, come le tribù, i villaggi, i popoli e le nazioni».

Più volte nel suo discorso, Carlson aggettiva come “naturale” questo modello di famiglia etero-patriarcale, mitizzato e occidentale, in opposizione a quelli derivati dai cambiamenti sociali voluti o scaturiti dalle politiche dei governi (per cui la famiglia sarebbe composta anche da coppie con pochi figli o nessuno, da genitori single o non sposati, da genitori lavoratori – senza distinzioni di genere – e occupati in lavori non direttamente collegati alla casa famigliare). Secondo lui, esiste un unico modello di famiglia e bisogna battersi per non vederla scomparire sotto la pressione dell’intrusione degli stati che privilegiano le coppie e gli individui al nucleo autarchico composto da padre, madre e figli. Verso la fine del discorso, Carlson chiudeva con una possibile soluzione per fermare i cambiamenti voluti dall’ONU: elaborare una controstrategia attraverso cui «ristabilire il vero significato della parola [“famiglia”] e, in seguito, assicurarsi che le specifiche raccomandazioni promuovano o supportino quel significato».

D’altronde, già nei paragrafi conclusivi di Family Questions, dopo aver sottolineato la centralità della cultura religiosa, soprattutto giudaico-cristiana, nel riaffermare e tener saldi i legami della famiglia e la sua autorità morale, Carlson aveva lanciato un appello a creare una «letteratura che celebri, anziché denigrare, le virtù della famiglia»; una «cultura popolare che difenda ciò che è interezza e decenza nella vita americana»; «accordi sociali e norme che spingano gli americani a impegnarsi per i figli e la casa»; un «sistema educativo che, senza scuse, presenti e sostenga il matrimonio, la fedeltà e i figli come cornice essenziale della vita giusta». Questa cultura della famiglia non può venire dallo stato, ma dai “sentimenti popolari delle persone”. Nell’ultimo paragrafo del libro, si leggeva in uno slancio ancora prevalentemente nazionale:

«Allo stesso modo, una politica famigliare per un popolo libero sarà soprattutto quella che include un creativo disimpegno dello stato e la ricostruzione, al massimo livello possibile, della naturale economia famigliare. Dalla natura, la famiglia può rivendicare una preesistenza allo stato e l’esercizio di diritti che nessun governo può giustamente compromettere. Per le famiglie in America, il lavoro centrale della prossima decade è riprendersi l’autorità e l’autonomia che sono loro dovute. L’alternativa può essere tracciata con chiarezza: la persistente socializzazione delle famiglie e dell’educazione dei figli, fino alle loro definitive scomparse, e la destabilizzazione continua di un popolo libero e responsabile». [p. 279]

Certamente non isolati, gli appelli di Carlson a elaborare una controstrategia e a creare una “cultura popolare” in difesa dell’autonomia del nucleo famigliare composto da padre, madre e prole non resteranno inascoltati. Anche perché, a partire dalle conferenze sulla popolazione e lo sviluppo del 1994 e sulle donne del 1995, si apriranno sempre più spazi per le pratiche di lobbying all’interno dell’ONU, così da favorire l’accesso democratico a istanze non unicamente istituzionali nei processi politici internazionali. In tal modo, come Carlson, altri esponenti della destra religiosa statunitense e attivisti antiabortisti guarderanno non più soltanto ai governi nazionali, ma anche alle arene politiche internazionali, costruendo ed evolvendo un rinnovato impegno anti-femminista e anti-LGBTI su scala globale. Nasceranno nuove Organizzazioni Non Governative (ONG), spesso supportate dal Vaticano, allo scopo di contrastare quelle che percepiscono come minacce sociali in grado di compromettere l’intera civiltà umana: i diritti sessuali, i diritti riproduttivi, l’autodeterminazione, la non discriminazione, la tutela di persone e gruppi socialmente oppressi sulla base dell’orientamento sessuale, l’identità di genere e le caratteristiche del sesso.

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Dale O’Leary

In questo contesto, la su citata definizione data da Carlson di “famiglia” ipostatizzata, universalizzata e mitizzata, quella secondo cui all’origine della civiltà c’è il nucleo composto da padre, madre e figli, sarà ripreso da molte voci dell’attivismo profamily, in particolare statunitense. Infatti, l’idea di Carlson che vede la famiglia come nucleo originario mai connotato nel tempo e nello spazio e come cellula base fondata sulla riproduzione di una coppia eterosessuale unita in matrimonio è prerogativa essenziale per sganciare il dato culturale dalle analisi e dalle rivendicazioni di chi si professa religiosamente profamily. Carlson, per esempio, verrà citato dalla giornalista Dale O’Leary che, a sua volta, aveva seguito la conferenza sulla popolazione e lo sviluppo per la rivista Catholic World Report. Cogliendo l’appello allarmato lanciato da Giovanni Paolo II, insieme ad altre ONG della destra religiosa statunitense, nel 1995 O’Leary parteciperà alla conferenza sulle donne e lì distribuirà alle delegate delle nazioni il suo libretto intitolato Gender: The Deconstruction of Women.

L’obiettivo era fare pressioni sulle rappresentanti dei governi, allertare rispetto ai pericoli di quello che O’Leary chiama il “femminismo del genere” (gender feminism) ed evitare che nel documento finale si potesse aprire il discorso all’interruzione di gravidanza; all’uso dei contraccettivi; ai diritti legati alla salute delle donne e ai diritti riproduttivi; al riconoscimento di relazioni non fondate sul matrimonio tra persone di sesso diverso e sull’astratta complementarietà dei (due) sessi; al lesbismo; alla messa in discussione dei ruoli di genere e, in generale, del binarismo di genere. Come il Vaticano, O’Leary combatterà l’uso della parola “genere” al posto di “sesso”, spia di una “guerra culturale” voluta da militanti femministe, estremiste di sinistra, teoriche marxiste, lesbiche, gay, governi e corporations contro la presunta evidenza del dato biologico rispetto a quello culturale, contro il potere detenuto dagli uomini in nome della parità, contro la maternità come destino delle donne, contro la maternità obbligatoriamente “a tempo pieno”, contro le coppie formate da persone di sesso diverso, contro – soprattutto – la famiglia etero-patriarcale.

All’inizio di The Gender Agenda (1997), libro in cui deformerà il pensiero critico e politico di coloro che percepisce come dirette avversarie e in cui racconterà le due conferenze dell’ONU del ’94 e del ‘95, O’Leary riporterà la definizione di “famiglia” astratta e universale data da Carlson in What’s Wrong With the United Nations’ Definition of the Family?. Subito prima della citazione, in un tentativo di definire l’ideologia di base dell’attivismo profamily che combatte le femministe e la loro “Agenda del Genere”, O’Leary scriverà:

«Le femministe etichettano i loro oppositori come “fondamentalisti”, “la destra religiosa” o “estremisti di destra”, sottintendendo che abbiano un punto di vista religioso limitato, estremista e settario che non trova spazio nell’arena pubblica. Gli oppositori dell’Agenda del Genere non sono, invece, uniti dall’aderenza a una specifica religione, ma piuttosto da un impegno nei confronti della famiglia e da una fede nella natura umana. Pensano sé stessi come profamily. Le femministe insistono sul fatto che anche loro supportano la famiglia, ma ridefiniscono la famiglia in modo tale che il termine possa riferirsi a due coinquilini e il loro cane. Diversamente, molti attivisti profamily supporterebbero la […] definizione della famiglia [data da Carlson]».

The Gender AgendaCome Carlson, O’Leary sentiva il bisogno di impegnarsi in prima persona e, soprattutto, di invitare altre e altri a fare altrettanto. D’altronde, anche la presa di parola e la visibilità delle attiviste lesbiche durante la conferenza sulle donne del 1995 (iniziata con uno striscione srotolato nella sala principale dell’evento su cui si leggeva che «i diritti delle lesbiche sono diritti umani») richiedeva una capacità di lobbying e uno sforzo creativo da parte dell’attivismo reazionario, anti-femminista e anti-LGBTI. O’Leary ne era consapevole. Infatti, The Gender Agenda si chiuderà esortando le persone a combattere la “guerra culturale” in corso attraverso storie da scrivere, canzoni da cantare e immagini da realizzare al fine di «comunicare la verità sulla persona umana». Per farlo, non ci sarà bisogno di essere gentili:

«Ci sarà bisogno di calcolata villania. Le femministe si sono appoggiate alla gentilezza degli uomini. Hanno richiesto che pericolosi nonsense e totale stupidità fossero trattati con rispetto. L’Agenda del Genere non può essere sconfitta finché le persone non sono pronte ad alzarsi in piedi e dire: «Basta con il linguaggio inclusivo, basta con il discorso politicamente corretto». Dobbiamo rifiutarci di dire “genere” quando vogliamo dire “sesso”. Coloro che si sentono offesi dalla realtà e dalla natura umana devono farsene una ragione. […] L’Agenda del Genere mi fa venire in mente un palloncino gigante in una piccola stanza. Finché tutti trattano il palloncino con rispetto, questo continuerà a espandersi e, alla fine, soffocherà le persone nella stanza. Ma tutto ciò che serve per bucare il palloncino è uno spillo appuntito».

La verve linguistica di O’Leary è distante dall’atteggiamento scientifico mimato da Carlson nei suoi scritti. Eppure, entrambi mostrano la stessa sofferenza nei confronti dei cambiamenti sociali, la stessa urgenza nel richiamare all’azione, lo stesso bisogno di mettere in piedi un sistema culturale che permetta di politicizzare le persone e mobilitarle in difesa di un modello idealizzato della famiglia come cellula base della civiltà. Nella seconda metà degli anni Novanta, la destra religiosa statunitense si era impegnata a rigenerare l’attivismo antiabortista nato tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, evolutosi in particolare dopo la sentenza Roe v. Wade ed entrato nelle istituzioni negli anni Ottanta con la presidenza di Reagan. Nel 1992 prima e nel 1996 poi, l’elezione alla Casa Bianca di un democratico, Bill Clinton, sembrava compromettere gli avanzamenti, in termini di potere, degli antiabortisti. Parallelamente, l’orgoglio mostrato e le rivendicazioni portate avanti dalle persone LGBTI necessitavano, per contrastarle, di una più calcolata ristrutturazione del movimento reazionario omofobo, nato negli anni Settanta con Save Our Children. È in questo contesto, sommato alla globalizzazione e alle politiche dell’ONU, che Carlson comincerà a pensare un evento internazionale rivolto ai gruppi e alle persone che intendono la famiglia come nucleo etero-patriarcale a partire dal quale si sviluppa l’intera civiltà. In questo modo, Carlson smetterà pian piano i panni dello studioso della “crisi sociale americana” per un think tank conservatore, il Rockford Institute, e diverrà un ideologo militante a capo di una nuova organizzazione, l’Howard Center for Family, Religion and Society.

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